“La casa in collina”, C. Pavese

casa-collinaTorino. 1943. Seconda Guerra Mondiale. Questa è la realtà che fa da sfondo al romanzo del dissidio interiore, il dissidio tra la solitudine contemplativa di un uomo sensibile all’ambiente circostante e la presa di posizione storica ed ideologica che gli eventi storici richiederebbero. Nella Casa in collina, Cesare Pavese identifica se stesso in Corrado. Il protagonista è un uomo con negli occhi un velo di tristezza e la malinconia addormentata agli angoli della bocca; ha l’aria di chi ha cercato, ma non ha trovato e decide così di rassegnarsi e chiudersi in quella gabbia d’oro che gli permette di non prendere decisioni, di non rischiare, di non dover fare i conti con il proprio egoismo e soprattutto con la difficoltà di essere fedele a se stesso. Corrado mangia la realtà, la assimila, ma non riesce a venirne fuori, sottomettendosi ad un’angoscia profonda che si esprime in una totale “incapacità d’amare”, cosa di cui lo accusa Cate. Eppure questa “incapacità d’amare” è qualcosa di molto più profondo, più radicato di quanto la ragazza pensi. L’interesse per il mondo e per la situazione politica che lo circonda mostra chiaramente che egli è più aperto di quanto non appaia, ma la sua stessa apertura è fonte di delusione e dubbio. La guerra per l’autore è il sonno della ragione, la follia negativa degli uomini; la realtà dello scrittore che traspare nel protagonista del romanzo. Corrado guarda dunque il mondo come qualcosa di totalmente estraneo a lui, lo guarda senza essere in grado di comprendere le necessità di quella maledetta follia che spinge a prendere chiare scelte di campo per darsi una ragione di vita o un’identità definita. Nessun personaggio del racconto riesce a “riscattare” il senso di morte perché ne è già interamente dentro. Questo è mostrato sia da Cate e dai suoi amici rivoluzionari, quanto dai fascisti che ormai combattono per abitudine. Due sole le figure potenzialmente capaci di accendere una scintilla di speranza: il cane Belbo e Dino, destinate però ad assumere una consistenza opaca e labile perché vivono in un mondo di spettri. Questo è il mondo che percepiamo nelle immense tenebre di Pavese: un mondo di fantasmi, uomini che non sanno più in cosa credere. E in questo caos senza nome, Corrado vive un’intera vita in un inutile isolamento. “Una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi, entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie e si dimentica di uscire”. La parte conclusiva del romanzo in cui è descritto il ritorno a casa è percepito come un viaggio attraverso l’inferno, un momento che costituisce l’unica opportunità per il protagonista di cambiare le sorti della sua vita. Lo stile infatti diventa più sprezzante e ansioso. Terrore, fuoco, orgasmo, dolore, queste parole ricorrono nel testo come un turbine d’emozioni che investono il lettore, ponendolo nella condizione di chiedersi se sta vivendo veramente o se è egli stesso parte di quel mondo di spettri. La penna di Pavese si interrompe con una domanda senza risposta: “Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero”. Soltanto per loro.

Veronica Filippi

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