Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni, 2003

Hassan e il suo caro amico Amir sono cresciuti insieme nella città di Kabul, dove un tempo nel cielo volavano gli aquiloni, le cui eleganti evoluzioni rappresentavano la libertà del Paese. Le vicende dei due ragazzi sono intrecciate a quelle tragiche dell’ Afghanistan: trent’anni di storia, dalla fine della monarchia al formarsi di regimi totalitari e alla conseguente invasione russa, dal regime dei Talebani e la cruenta guerra con i mujaheddin, fino ai giorni nostri. Il tempo degli aquiloni è finito, viene invece descritto con realismo un mondo violento, sinistro, caratterizzato da vite spezzate, da esistenze umiliate e da infanzie rubate.
The Kite RunnerFarid mi aveva avvertito. Ahimè, inutilmente. Seguimmo la strada tortuosa e dissestata che, insinuandosi tra scoscese pareti di roccia, univa Jalalabad a Kabul. Era diventata il relitto di due guerre. L’ultima volta che l’avevo percorsa, in direzione opposta, era stato su un camion coperto da un telone cerato. Baba aveva rischiato di essere fucilato da un soldato russo. Quella notte mi aveva fatto morire di paura e nello stesso tempo mi aveva reso immensamente orgoglioso di essere suo figlio. Vent’anni prima, avevo visto con i miei occhi le avvisaglie della prima guerra. La strada adesso era cosparsa di tristi rottami: carcasse di carri armati sovietici, camion militari rovesciati, una jeep accartocciata precipitata in un burrone. Della seconda guerra avevo visto solo le immagini sullo schermo della televisione. Ora la rivivevo attraverso gli occhi di Farid. Al volante della sua Land Cruiser, su una strada impossibile, Farid si trovava nel suo elemento. Dopo la notte passata in casa di Wahid, era diventato più loquace. Mi aveva fatto sedere accanto a sé e mi guardava negli occhi quando mi parlava. Un paio di volte aveva persino sorriso. Teneva il volante con la mano mutilata e mi indicava le capanne dove un tempo avevano vissuto dei suoi conoscenti. Mi spiegò che quasi tutti gli abitanti erano morti oppure si trovavano in campi di rifugiati in Pakistan. «E qualche volta i morti sono i più fortunati.» Mi indicò i muri carbonizzati di quello che era stato un piccolo villaggio. Un cane dormiva al riparo di un muro. «Un tempo qui abitava un mio amico» mi raccontò Farid. «Riparava biciclette. Era anche un eccellente suonatore di tabla. I talebani l’hanno ucciso con tutta la sua famiglia, poi hanno incendiato il villaggio.» Superammo i resti anneriti del villaggio e il cane non si mosse.

Un tempo, il viaggio in macchina da Jalalabad a Kabul richiedeva un paio d’ore. Noi ne impiegammo più di quattro. Farid mi preparò allo scenario di desolazione che mi aspettava. «Kabul non è più come lei la ricorda.»  «Ho sentito.» Sentire e vedere sono cose molto diverse, mi disse una sua occhiata eloquente. Aveva ragione. Perché quando finalmente raggiungemmo Kabul io fui certo, assolutamente certo, che Farid avesse sbagliato strada. Vedendo la mia espressione sconcertata, la stessa che aveva visto sul volto di tutti coloro che tornavano dopo tanto tempo, mi batté mestamente sulla spalla. «Bentornato.»

Macerie e mendicanti. Dovunque guardassi non vedevo altro. Anche nella Kabul dei miei ricordi c’erano mendicanti, ma adesso ce n’erano accucciati ad ogni angolo, coperti di stracci, le mani luride tese verso i passanti. Ed erano soprattutto bambini, bambini dalle facce emaciate e tristi. I più piccoli stavano in grembo alle madri avvolte nel burqa e ripetevano: «Bakhshesh, bakhshesh!» come una litania. Mi resi conto che nessuno era in braccio a un uomo… le guerre avevano reso i padri un lusso in Afghanistan.