La Libertà di scelta

La libertà di scelta 

“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Queste sono le parole che Dante fa dire ad Ulisse nel ventiseiesimo canto dell’Inferno.  L’immagine di Ulisse, l’impresa sua e dei suoi compagni diventano così il simbolo della ricerca umana, intellettuale, per spalancare le porte della conoscenza, espressione del desiderio dell’uomo di ogni epoca di liberarsi dai condizionamenti esterni; che siano i divieti impartiti dalla religione o le leggi imposte dalla comunità civile. L’uomo da sempre si sente libero solo nell’opporsi alle regole e poco importa se tale ricerca lo conduce alla sconfitta, all’esclusione dalla comunità o alla dannazione eterna. Il breve istante in cui egli si sente alla pari con gli dei e superiore agli uomini soddisfa pienamente il suo ego, è il raggiungimento della libertà.

Ci spieghiamo così allora perché la metafora del viaggio sia tanto presente nella poesia e nella letteratura di ogni epoca. Dopo Omero, dopo Dante, il  triestino Umberto Saba dice:

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

Il viaggio appare anche qui necessario per placare quello spirito selvaggio, irrazionale che è in ogni uomo, per riempire quel vuoto presente nell’animo umano che lo spinge verso la bellezza, verso l’ignoto, verso la perdita dei sensi e che è il puro e semplice bisogno di superare i propri limiti.

Questa spinta fisica a muoversi, a spostarsi, a cercare, a scoprire, è certamente presente anche in personaggi più controversi di Saba, più ribelli e insofferenti alla morale comune. Anche per loro il viaggio è motivo di felicità ed è una condizione dello spirito che non dipende dalle possibilità economiche di ognuno. Anche se chi lo compie è povero, il risultato è entusiasmante.

Arthur Rimbaud ce lo illustra in Ma  bohéme:

La mia bohème
Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
E anche il mio cappotto diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele servitore;
Oh! quanti amori splendidi ho sognato!

I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio.
Pollicino sognante, nella mia corsa sgranavo
Rime. La mia locanda era sull’Orsa Maggiore.
– Nel cielo le mie stelle dolcemente frusciavano

Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade
In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce
Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore;

Dove, rimando in mezzo a fantastiche ombre,
Tiravo, come fossero delle lire, le stringhe
Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

Il  viaggio del bohemien, dell’artista privo di mezzi, che continua a camminare, libero di affrontare sempre nuove esperienze, pronto a lasciarsi trascinare da sempre nuove emozioni, è, fuor di metafora, quello dell’uomo che cerca nuove  ispirazioni, espressione di quell’amore per la vita che ad ogni passo egli vuole comunicare. Si può quindi parlare proprio di una trasfigurazione della miseria, che permette di adoperare nuove chiavi interpretative. Grazie a queste è possibile compire un secondo viaggio, parallelo a quello fisico, che è quello mentale

Quale sensazione è collegata allora alla ricerca della libertà? Evidentemente si tratta di una condizione di  felicità profonda, di entusiasmo irrazionale, addirittura di ebbrezza. È un deragliamento dei sensi che accompagna la scoperta del mondo in cui ci troviamo a vivere.

Anche Charles Baudelaire ne “Lo spleen di Parigi” propone di andare alla scoperta, in ogni momento, della nostra vita in  condizione di ebbrezza:

“Bisogna sempre essere ubriachi. Tutto qui: è l’unico problema. Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena e vi piega a terra, dovete ubriacarvi senza tregua.

Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi.

E se talvolta, sui gradini di un palazzo, sull’erba verde di un fosso, nella tetra solitudine della vostra stanza, vi risvegliate perché l’ebbrezza è diminuita o scomparsa, chiedete al vento, alle stelle, gli uccelli, l’orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che scorre, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, chiedete che ora è: e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, l’orologio, vi risponderanno:

– È ora di ubriacarsi! Per non essere schiavi martirizzati dal Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare.”

Eccolo l’uomo. Sempre novello Ulisse. Nel movimento fisico attraverso lo spazio o  nell’ebbrezza dei sensi, egli cercherà sempre di soddisfare i bisogni del suo animo indomito ed affamato di sapere.