“L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin”, Alessandro Baricco

Attachment-1Da leggere (preferibilmente) ascoltando Schoenberg

Colpisce molto il titolo: fa sorridere. “L’anima di Hegel” come per dire “udite, udite qui si parla di cose serie, anzi serissime” e poi arrivano le mucche, che con il loro ruminare lento hanno ben poco di serio.
Più che una riflessione su musica colta e modernità, quella di Baricco sembra una confessione, un mettere nero su bianco idee e sensazioni che lo trapassano, o lo hanno trapassato, durante l’ascolto di un Mahler o un Beethoven con gli occhi chiusi nello sforzo di riuscire a entrare nel mondo misterioso dell’ineffabile, dell’incerto.
Va detto che non è facile seguire l’autore nelle sue interpretazioni, critiche, e anche nei suoi consigli; è necessaria una conoscenza, e nemmeno banale, di ciò che si sta dicendo e, ancor più, di ciò che si sta omettendo. Le mucche non durano più di una pagina, il sorrisetto che ci avevano fatto nascere si spegne in un lampo, lasciando il passo a una fronte corrucciata e ad occhi che spesso devono tornare indietro di qualche riga e riprendere tutto daccapo. Parlare della musica colta (o presunta tale) non è raccontare la successione dell’evoluzione di produzione e composizione, non è nemmeno citare i grandi autori che vengono così privati della loro spinta; scrivere di musica è vizio dei filosofi. Bisognerebbe pubblicare un libro sulla musica con tutte pagine bianche (a Pirandello sarebbe piaciuto) perché la sinfonia, il concerto, l’opera non sono immobili come le parole, pagano con l’annullamento di sé l’immobilità. Ed è forse questo il passaggio più chiaro nel libro di Baricco, nel quale mostra il debito che tutti abbiamo con Mahler e le sue praterie desolate, ripetitive ma che continuano a viaggiare, ad andare avanti, oltre, o con Mozart o Beethoven o Strauss.
Ma non è tutto incomprensibile, vago. Il libro offre la possibilità, ormai consumata, ad ognuno di noi di fermarsi, di mettere una pausa lunga più di un quarto alla parola vita. Si rimane con lo sguardo all’aria quando si pensa che “la musica si reinventa, diviene al di là di se stessa con lo sconto di un tempo che non l’ha creata ma che adesso l’accoglie”; tutti cantiamo sotto la doccia, quando camminiamo nel parco, oppure fischiettiamo un’aria al bar mentre attendiamo il caffè: la musica è dentro di noi, ed è l’unico atto dell’uomo in cui “tramandare e interpretare sono racchiusi in un unico gesto”.
In fin dei conti non ci serve una riflessione, sullo specchio degli anni, per piangere accordi dissonanti che bisognava dire belli perché tutti li dicevano belli; è necessaria una pausa, una confessione di ciascuno di noi. Qual è il debito con la musica? Un lungo sospiro forse, o un accordo, una terzina, una semicroma puntata… Accogliamo questo libro come un momento per respirare un po’ di musica dal naso e non dalle orecchie, per definire e agguantare, anche solo per un momento, l’indefinibile.

Eugenio Cereser

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